domenica 12 dicembre 2010

IN MOTO COL FREDDO.

Quando ne hai le palle piene e c'è pure una bella giornata ma vicina allo zero, devi smettere di fare quel che fai e devi tirare fuori la moto dal garage. Se sei fortunato puoi anche scegliere la moto.
Tre giorni fa ho scelto la SR 500. Non viaggiava da agosto.
Mi sono vestito come un boscaiolo, l'unico oggetto tecnico era il casco.
Apro la porta del garage, lei è imboscata sotto una catasta di roba.
La libero.
La metto nel cortile, tira vento, sembra caldo ma è un'illusione, il termometro è a sei gradi e il sole si sta abbassando verso le montagne. Sono già le tre. In cielo non c'è una nuvola e questo sorprende i torinesi abituati a un cielo grigio topo costante senza mai un cambiamento per settimane, qualche volta.

Apro il serbatoio, il tappo è di metallo cromato. Mezzo pieno.
Dò il contatto, il quadro si accende.
Apro la benzina, una grossa leva che lascia passare la benzina al carburatore.
Tiro l'aria.
Muovo il pistone due volte, due svogliate pedalate a vuoto.
Poi metto il pistone nella giusta posizione, punto morto superiore.
Sul lato destro del cilindro, c'è pure una finestrella di vetro che ti fa vedere con un segno bianco se il pistone è nella posizione giusta.
Ammollo un calcio e il motore, fermo da agosto, parte regolare con un suono che commuove.
La moto vibra tutta. L'acceleratore lo lascio stare, il motore sale di giri e lo tengo sotto controllo mollando poco alla volta la leva dell'aria. In un minuto lascio libero il carburatore di respirare. Il ritmo si regolarizza, questo motore pare un orologio.
Mi vesto, chiudo la cerniera di una vecchia giacca antipioggia inglese, verde, mai lavata o incerata in quindici anni di onorato servizio. Ne ha viste di tutte i colori, molta acqua in ogni caso. Continua a puzzare della stessa cera originale, l'etichetta dice che è stata fatta in Inghilterra. Tengo a quella etichetta come a una delle moto. Non è nemmeno di una marca conosciuta ma è fatta come si deve, non per i fighetti che la mettono per andare a passeggio ma per quel che serve: proteggere dalla pioggia e dai rami chi si muove nella natura. Non è di taglio motociclistico però è lunga a sufficienza tenere le chiappe al riparo e il suo cotone incerato tiene l'aria fuori. Purtroppo mano a mano che la temperatura scende lei si irrigidisce sempre di più.
Metto gli occhiali e inserisco la prima. Me ne vado.
Per la prima mezz'ora devo attraversare la periferia e la prima cintura della città. Un macello. Tutti in coda, tutti chiusi imbacuccati dentro macchine ben riscaldate e coibentate. Chiusure ermetiche.
Fino a quando non attraverso la Dora, dopo Avigliana, non ti sembra di viaggiare, stai solo sopravvivendo a un tentativo continuo di buttarti per terra da parte degli automobilisti che nemmeno ti vedono. Si respira un'aria puzzolente e polverosa, ma non c'è terra in terra, solo polvere nera.

Dopo la Dora fortunatamente qualcosa cambia. La strada comincia a salire e mano a mano che si sale l'ambiente si pulisce. Curve, alberi secchi e neri, il sole che continua a scaldare l'aria ghiacciata che sa di qualche cosa, comincio a sentire l'odore dei boschi. Nelle curve non esposte al sole la neve nel bosco è alta una spanna. Fa freddo, i guanti non sono quelli pesanti, sono i "vacchetta gialla" ma fatti in Italia.
I pantaloni sono di cotone duro e spesso ma non tengono granché. Anche la giacca è dura ma l'aria sta fuori.
Mentre salgo trovo un solo ciclista che pedala all'ombra, forse lui sta più caldo di me.
Ho il casco aperto, la pelle della faccia è ghiacciata. Ascolto il motore che gira sicuro, bello pastoso, pieno.
Attraverso piccole borgate disabitate, case sole, freddissime, offrono un'illusione di riparo, sono abbandonate da tanto tempo, stile anni '70. Hanno le serrande abbassate, verdi, tapparelle che con l'ambiente circostante non si incontrano. I geometri non hanno il senso del bello, hanno il senso di tirare righe perfettamente dritte, il senso del segno e dell'assegno. Fine. Il luogo comune dell'Italia distrutta dai geometri è una verità inconfutabile.
Quando la strada va a fare tornanti nella parte non scaldata dal sole, il gelo pizzica. Dal bosco saltano fuori sculture di ghiaccio che rivestono le rocce. Per terra ci sono lastrine di ghiaccio troppo sottile perché la moto possa scivolare ma le guardo, sono nere e grigie.
Sono partito troppo tardi, questa era una gita da far partire questa mattina alle undici, non alle tre del pomeriggio. Me ne importa niente. Voglio andare via dalla pianura piena di gente fuori di testa e sono disposto a congelarmi anche le palle che, in effetti...
Mentre salgo verso il colle mi viene in mente Dino, un amico mio che anni fa ha venduto una moto uguale a quella che sto guidando e dopo un minuto si era già pentito. Ho pensato che se viene a trovarmi a gennaio, lo porto a congelarsi su queste strade. Gli darò la SR 500, io tirerò fuori l'Africa Twin. Ci vestiremo come palombari e andremo a gelarci le palle in montagna. Duemila metri, a mangiare polenta concia e a bere vin brulè.

Quando manca un chilometro al Col del Lys, sento una moto che mi segue, finiamo la salita insieme. Al piazzale io e l'altro ci guardiamo, gli faccio un cenno ma mi ignora. Non è un motociclista, è uno che va in moto. Guida una moto giapponese di quelle fatte in altissima serie e lui la rende ancora più anonima. Se ne torna verso valle un minuto dopo essere arrivato. Al piazzale non c'è anima viva. Tre macchine di chissà chi. Il baretto è chiuso. La neve è ben ammucchiata ai bordi.
Parcheggio al sole, l'ultimo quarto d'ora poi le montagne diventeranno blu scuro.
Mi guardo intorno. Appena spengo il motore si sente quel bellissimo e commovente ticchettio del raffreddamento, accelerato dal vento freddo che tira quassù. 1300 metri di altezza. In basso si vede la piana di Avigliana, i due laghi nella bruma del pomeriggio e, un po' più a destra, un monte a punta.
Mi piace tutto, ho il naso ghiacciato, un alluce insensibile, le mani intorpidite, ho le ginocchia congelate, quando sarò vecchio zoppicherò per via dell'artrosi ma intanto mi godo il momento.
Le bandiere del pennone della piazza garriscono in silenzio. E c'è silenzio, in effetti. Anche il ticchettio del raffreddamento del motore e della marmitta è finito.
Adesso ci vorrebbe una tazza di tè nero. Bello caldo.
Ci vorrebbe che il mondo ogni tanto diventasse perfetto. Almeno qualche volta.

Poi il sole si adagia dietro le montagne e si sente la differenza. Cala un freddo più opaco, le montagne prendono improvvisamente tutte le sfumature del blu che tende un po' al grigio ma sempre con una nuance di blu.
È ora di scendere.

Salgo in moto, non ne vuole sapere di ripartire. La mando giù per la discesa. Le ficco la seconda e con gentilezza lascio andare la frizione. Ha talmente tanta compressione che la ruota si blocca con lentezza ma non gira. Gran motore!
Le faccio prendere un po' di velocità, metto la terza e allora il pistone si muove meglio, la marcia è dentro, tempo cinque centimetri di asfalto e il motore parte.
Ci tuffiamo nel bosco in ombra, tetro ormai e ricoperto di ghiaccio che fino a marzo inoltrato rimarrà lì, senza fare una piega. Adesso si va verso casa.
Gran freddo. Gran moto.


4 commenti:

  1. poeta della moto, come sempre.

    Ti ammiro per la voglia di andare in moto comunque e sempre. 'sta mattina alle 8:30 mentre andavo a fare la revisione allo scarabeo di Sofia con un bel sole e -6, ho realizzato che di freddo in moto nella vita ne ho accumulato troppo. Ho già dato, grazie.

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  2. Ciao,complimenti per il blog e per quello che scrivi.'Sto racconto m'è piaciuto un sacco. Anch'io sono un'amante dei giri invernali e delle moto fatte per essere moto ( quelle che non se le caga nessuno, insomma...)

    Slamps

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  3. Klast, ho bisogno di comunicare con te, mandami una mail a m.neriotti@libero.it grazie.
    Ciao. Polpo.

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  4. Credo che girare col freddo sia una forma di auto-sadismo.
    Ci sono persone a cui piace.
    Libertà di gusti ed espressione.
    Fanculo il freddo, vuoi mettere girare in Sardegna ed entrare, all'improvviso, in una bolla di aria calda?
    Apri il gas e, se sudi, ti asciughi.
    Libidine.

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